LA FASCISTIZZAZIONE DEL POTERE GIUDIZIARIO, LE MISURE PUNITIVE DEL REGIME CONTRO GLI OPPOSITORI E LA RESISTENZA DI ALCUNI AVVOCATI E MAGISTRATI A PROPRIO RISCHIO PERSONALE
di Virginia Lalli
Diversi sono stati gli studi promossi riguardo agli avvocati e magistrati che vissero e lavorarono nel contesto del regime fascista e delle anti-leggi razziali fasciste. Il regime fascista era consapevole che si sarebbe dovuto confrontare con gli oppositori all’interno della classe forense e ha giocato d’anticipo, imbrigliando tutto il sistema giudiziario per renderlo dipendente dall’esecutivo nonché prevedendo misure dissuasive e punitive a vari livelli e di diversa gravità verso avvocati e magistrati, contestatori delle
direttive del regime non in linea con i principi della civiltà giuridica. Nella disamina del periodo ricorderemo coloro che hanno salvaguardato la professionalità della classe forense nell’ambito della tutela dei diritti dei cittadini rischiando in prima persona o
pagando con la propria vita. È solo parzialmente vero, come sostenuto da taluni storici, che con le leggi razziali il regime fascista intendeva compiacere l’alleato tedesco. L’alleanza col nazismo non avrebbe potuto configurare, da sola, la premessa sufficiente a scelte così aberranti, cui invece larga parte del popolo italiano era stata da tempo preparata grazie al clima di ignoranza e di odio che la rese acquiescente e indifferente, se non addirittura cinicamente adesiva, in taluni casi, al progetto di approfittare della spoliazione dei diritti degli ebrei.
Le pratiche discriminatorie nei confronti delle popolazioni indigene delle colonie africane (avvenuta anche in altri paesi per le rispettive colonie), a tutela di un’asserita superiorità della razza bianca e della civiltà latina, costituirono un facile terreno di coltura
per l’antisemitismo. Del resto, già a partire dall’inizio degli anni ’30 aveva preso avvio una fiorente attività editoriale, rafforzata da una campagna di stampa, per l’apertura anche in Italia, come in Germania, di una “questione ebraica”, fondata sulla contrapposizione dell’identità giudaico-sionista all’identità nazionale, definite tout court incompatibili. Significativo della deliberazione già presa dal regime di attuare una dura politica razziale, escludendo dalla vita sociale gli appartenenti alle comunità ebraiche, appare il fatto che nel 1938, ancor prima della pubblicazione del Manifesto della razza (13 luglio) e del censimento degli ebrei (22 agosto), il Ministro dell’educazione nazionale avesse chiesto alle Università di identificare, fra i docenti e gli studenti, gli appartenenti alla minoranza ebraica, che avrebbe poi provveduto ad espellere col successivo decreto. L’Italia divenne così uno Stato “razziale” e “razzista”. Occorre interrogarsi circa il ruolo dei giuristi italiani nella formazione e nell’applicazione concreta di quelle anti-leggi di regime che recavano un grave vulnus al principio di uguaglianza sancito dall’art. 24 dello Statuto albertino, per il quale tutti gli appartenenti al regno erano eguali dinanzi alla legge, godevano dei diritti civili e politici e potevano accedere alle cariche civili e militari. La professione dell’avvocato fu la prima (forse perché giudicata dal regime la più pericolosa) a essere segnata dalla fascistizzazione delle sue istituzioni, a partire dal progressivo svuotamento dei poteri dei Consigli degli Ordini nel 1926, la loro soppressione definitiva e l’affidamento di tutte le funzioni ai sindacati fascisti, avvenuti nel 1933-1934 (rdl n. 1578 del 27 novembre 1933; la legge di conversione n. 36 del 22 gennaio 1934 e il regolamento di attuazione, rd n. 37 del 22 gennaio 1934).
Quale fu il ruolo svolto dai giudici italiani nell’assolvere il compito di applicare le leggi discriminatorie, nella loro funzione di interpreti della norma ma anche di custodi del principio di uguaglianza dei cittadini garantito dall’ordinamento costituzionale allora
vigente? Va rimarcato in premessa che, nell’introdurre il disciplinamento razziale, il regime fascista si fece forte di un assetto ordinamentale della Magistratura, allestito nel corso del ventennio dal primo r.d. n. 1028 del 1923 fino alla riforma Grandi di cui al r.d.
n. 12 del 1941, fortemente limitativo dell’indipendenza della Magistratura. Nel senso che era affidato all’Esecutivo, tramite il Ministro di grazia e giustizia, il controllo e il condizionamento dello statuto professionale e della carriera dei singoli, se non – con la mediazione dei capi di Corte prescelti dal regime – del contenuto delle decisioni giudiziarie. E, per impedire che residuassero spazi seppure minimi di autonomia e, quindi, di tutela effettiva dei diritti presidiati dalla giurisdizione, il regime non esitò ad eliminare i magistrati “scomodi” o “non allineati” o “incompatibili” che, per l’imparzialità dimostrata, talora anche a fronte di atti di violenza fascista, erano
caratterizzati da doti non gradite d’indipendenza. Dopo essersi liberato, subito dopo la presa del potere, di magistrati non adesivi alle
direttive politiche del regime, come Lodovico Mortara e Raffaello De Notaristefani, Primo Presidente e rispettivamente Procuratore Generale della Corte di Cassazione, o Vincenzo Chieppa, già segretario generale della disciolta Associazione fra i magistrati d’Italia, il Governo, in forza della legge n. 2.300 del 1925 che consentiva la dispensa dal servizio dei dipendenti pubblici, all’indomani dell’approvazione delle leggi razziali, procedette all’epurazione immediata di 14 magistrati: alcuni dispensati dal servizio, altri 3
collocati forzatamente a riposo prima della dispensa formale, numerosi gli esclusi dal concorso in magistratura. Fra i magistrati epurati va ricordato il giovane uditore giudiziario Mario Finzi il quale, magistrato a soli 24 anni e dispensato dal servizio di giudice a Milano, si dedicò all’insegnamento presso la scuola ebraica di Bologna e all’assistenza dei rifugiati ebrei in Italia, per essere poi arrestato nel marzo del 1944, rinchiuso nel campo di concentramento di Fossoli e deportato ad Auschwitz-Birkenau, dove morì il 22 febbraio 1945 come anche l’avvocatessa Amalia Fleischer laureata in filosofia e giurisprudenza, parlava correttamente italiano, tedesco, inglese e francese.
Prima donna avvocato del Sud tirolo, convertita al cattolicesimo già dal 1917 e battezzata. Nel 1939, seguendo il dettato delle norme razziste chiede la cancellazione dall’Albo. Viene arrestata a Faenza il 4 dicembre 1943. Viene detenuta in carcere prima a Ravenna e poi a Milano. Il convoglio che la deve condurre ad Auschwitz parte il 30 gennaio 1944 ad arriva al campo il 6 febbraio ma di Amalia non abbiamo più traccia. Come pure vanno ricordate le figure coraggiose (citate nel libro “Esperienze di un magistrato” di Domenico Riccardo Peretti Griva, Presidente di sezione della Corte d’appello di Torino) del giudice Vincenzo Giusto del tribunale di Cuneo, morto da partigiano e medaglia d’oro della Resistenza, e del consigliere Ferrero, arrestato nel 1944, percosso, insultato come “traditore” e infine fucilato dalla milizia nazifascista. Insieme a tali esempi luminosi, va inoltre sottolineato che una parte dei giudici, rimasta
in servizio e chiamata ad applicare le leggi razziali, sebbene non accompagnata da garanzie di indipendenza dall’Esecutivo, ne diede fin da subito un’interpretazione restrittiva, che assicurò comunque un pur limitato spazio di tutela giurisdizionale per i cittadini ebrei ingiustamente e dolorosamente lesi e deprivati dei loro diritti, così da limitare gli effetti eversivi delle leggi razziali. Il regime mirava a introdurre il concetto di “razza” come requisito per il riconoscimento della capacità giuridica e, per assicurarsi il raggiungimento dell’obiettivo, aveva previsto con apposita norma – l’art. 26 del r.d.l. n. 1728 del 1938 – che ogni questione relativa all’applicazione delle leggi razziali sarebbe stata risolta, caso per caso, dal Ministro per l’interno, coadiuvato da una speciale Commissione, con provvedimento amministrativo non soggetto ad alcun gravame, anche giurisdizionale.
Ad integrazione del r.d.l. n. 1728 intervenne la legge n. 1024 del 1939, istitutiva di altra Commissione speciale – il c.d. “Tribunale della razza” –, presieduta da un alto magistrato, Gaetano Azzariti (dopo la caduta del fascismo, essendo stato nominato prima giudice e poi presidente della Corte costituzionale dal 1955 al 1961), e composta da altri due consiglieri di cassazione, Manca e Petraccone (dei quali il primo ebbe analoga sorte di essere eletto giudice costituzionale). Ebbene, quei giudici, sia della Magistratura ordinaria che di quella amministrativa, ribadirono che, fermo restando il potere esclusivo del Ministro a deliberare “in merito a chi fosse ebreo” sulla base di ambigui criteri biologico-culturali, le questioni riguardanti il godimento dei diritti civili e politici e lo stato delle persone (capacità, famiglia, patrimonio, impresa, lavoro) dovessero continuare ad essere affidate alla garanzia della giurisdizione, rifiutandosi perciò di rimettere anche queste alla competenza esclusiva e insindacabile del Ministro per l’interno e delle sue Commissioni speciali. Così, ad esempio, in una delle prime sentenze rese in materia, relativa ad una vicenda di filiazione (sentenza 5 maggio 1939, Rosso c. Artom, Est. Peretti Griva), la Corte d’Appello di Torino rilevò che «il conoscere dell’appartenenza a razza determinata di una parte in giudizio non sfugge alla giurisdizione del giudice ordinario per rientrare in quella dell’autorità amministrativa, quando trattasi di deliberare sulla capacità giuridica dei cittadini ad ogni effetto di diritto civile».